Parlare il linguaggio del jazz
Parlare il linguaggio del jazz
In questo articolo traterò il linguaggio del jazz, di come i jazzisti comunicano tra di loro sul palco ma anche nella vita di tutti i giorni. Ma non lo scriverò io ma inizierò ad attingere da un libro bellissimo di Wynton Marsalis " Il Jazz Può Cambiare la Vita".
“Quelle indicazioni del cavolo! Mi sa che ci siamo persi. Non seguire il navigatore. Segui quello che ci ha detto
quel tizio." Tutti prima o poi abbiamo avuto dei dubbi nel seguir le indicazioni. "Ha detto di girare a sinistra su Bush Street 0 su Buslî nell Avenue?"
“C'era un distributore della Exxon o della Texaco?" A volte vi perdete solo perché non sapete seguire le in dicazioni, altre perché un riferimento che “qui conoscom tutti” è visibile soltanto a quelli che l'hanno visto quandi c'era per dvvero. In ogni caso è normale dubitare dell' informazioni quando non siete sicuri di dove vi trovate « non sapete dove state andando. Ma niente paura: se insistete, prima o poi arriva il momento in cui dite: “Eureka ci siamo, ecco Webster Streetl”.
Allora sapete che andrà tutto bene. Quel nome — Web ster — vi dice esattamente dove siete. La stessa cosa succede con il jazz. La terminologia del la musica è come la musica stessa: diretta e senza peli sul. la lingua. Vi dice quello che sta accadendo. L’ascolto diventa più piacevole quando comprendete il significato di alcuni termini chiave come break, riff e call and response.
I musicisti jazz devono ascoltare e comunicare. Non avete la piu pallida idea di quello che gli altri stanno per improvvisare
perciò siete obbligati ad ascoltare. E dato che l'accompagnamento è improvvisato, al solista si richiede dl comunicare in fretta la logica di quello che sta suonando. La stessa intensità. Ecco perché la terminologia del jazz e analoga alla comunicazione verbale.
L'assolo
Un assolo è un monologo accompagnato, come quan: do una persona dichiara "Io sono”. Agli albori del jazz, nei primi due decenni del venteimo secolo, i musicisti non facevano gli assoli. Si limitavano a piccoli abbellimenti melodici. In seguito ci fu una graduale evoluzione di quegli abbellimenti, un po' come quando un bambino impara a parlare.
Prima “ma-ma", "pa-pa" e "no", poi frasi come “non voglio bagno” e infine un articolato uso del linguaggio e della connessione delle idee, tutto per convincerti con vari raggiri a sostenere una disdicevole forma di sponsorizzazione: "Comprami quel gioco, per piacere! Tutti i miei amici ce l'hanno!"
Nel jazz, brevi frasi improvvisate si evolsero in lunghe escursioni melodiche che sfociarono in flussi di improvvisazione libera, Chorus dopo Chorus. Per esempio, se ascoltate l’assolo di King Oliver in Dippermouth Blues:
Poi quello di Louis Armstrong in West End Blues:
Poi Charlie Parker in The Funky Blues:
Poi quello John Coltrane in Bessie's Blues:
Vincenzo Danise
Dopo aver visto gli esempi appena postati potete farvi un’idea di come nel tempo è cambiato l'assolo da un artista all’altro.
NOTA BENE: Non proseguire la lettura se non hai ascoltato i precedenti esempi musicali nei video soprastante.
Non sto dicendo che l'assolo di Trane sia “migliore” o "più avanzato" di quello di Louis Armstrong, perché non è così, ma
include idee tratte da Oliver, Armstrong e Parker. Armstrong sapeva cosa suonava Oliver, Parker sapeva cosa suonava
Armstrong e Coltrane cominciò a suonare per via di Parker. Ogni musicista entra in relazione con i suoi predecessori, prendendone alcuni aspetti come spunto su cui costruire qualcosa di suo.
I musicisti migliori inserivano nei loro assolo porzioni di melodie familiari per dare un punto d’appoggio agli ascoltatori. In questo modo, seguire un lungo assolo è un po' come ascoltare delle persone che conversano in una lingua straniera di cui si afferra qualche cosa. Tre o quattro frasi si riescono a decifrare. ma poi ci sono tutte le altre parole che si susseguono. Lo scoraggiamento può prevalere dopo l’entusiasmo iniziale, eppure resta la voglia di ascoltare, perché ci si accorge che quelle persone stanno comunicando idee concrete. Nella musica le idee sono invisibili - pensieri. emozioni, aspirazioni - ma non
per questo meno concrete, e comprenderle è gratificante. Insistete con la musica e il suo significato vi apparirà
chiaro.
L’assolo jazz ha dato a un gran numero di musicisti l’opportunità di apporre il loro marchio creativo nella storia della musica. L’esecutore era anche il compositore; e il disco, non lo spartito, divenne il documento definitivo. Quanti importanti virtuosi classici non hanno potuto esprimere appieno la loro voce creativa perché incapaci di comporre? Parlare con la voce di un grande compositore è un conto, ma dire la tua esattamente come la senti è tutta un'altra cosa. Il jazz ha costituito una novità. Se avevi l'ispirazione di improvvisare e di inventare un‘ modo personale di suonare il tuo strumento (cosa per nulla facile), ti
bastava imparare le progressioni di accordi, qualche melodia popolare e il blues (che, come vedremo più avanti è
la linfa vitale della musica americana) per diventare un creativo musicista di jazz, trasmettere il tuo feeling alla musica e magari a qualche ascoltatore.
Call and Response
La forma di comunicazione più basilare, dopo. la pura imitazione, è la dialettica tra richiamo e risposta. Qualcuno chiama il tuo nome e se sei educato rispondi “Si?”, se lo sei dici "Cosa?". I musicisti jazz amano tutti i tipi di call and response musicale: il richieamo della tromba di Louis Armstrong all'inizio di West End Blues, la risposta dell'orchestra di Count Basie al canto di Jimmy Rushing in qualsiasi blues che li vedeva insieme oppure Mademoiselle Mabry, la risposta di Miles Davis a The Wind Cries Mary di Jimi Hendrix.
I primi dischi di blues di cantanti come Bessie e Mamie Smith sono costruiti con una frase di blues che “chiama” e
uno strumento che risponde. Young Woman's Blues di Bessie Smith ne è un classico esempio: lo strumentista - in questo caso il cornettista Joe Smith - si sforza di suonare con altrettanta espressività della cantante, e allo stesso tempo aggiunge finezza ritmica e musicale.
Il canto scat
La procedura call and response ha ispirato gli strumentisti a suonare con la naturalezza e le sfumature tipiche della voce umana, come faceva Ray Nance in tutti, proprio tutti, gli assolo di tromba che interpretava con l’orchestra di Duke Ellington (è lui il solista sul classico Take the “A” Train).
Ma ha pure motivato i cantanti a migliorare la loro tecnica per produrre quella emulazione improvvisata, senza parole, del suono degli strumenti a fiato che è detta canto scaf: Ba-da-ba-dee-doo bee-yee-bah-dee doo-bee-yah. È divertimento allo stato puro. Louis Armstrong (Heebie Jeebies) ed Ella Fitzgerad (Oh, Lady
Be Good) erano maestri dello scat. Il termine bebop, che designò lo stile sviluppato nel dopoguerra da Dizzy Gillespie e Charlie Parker, deriva dal suono delle loro improvvisazioni strumentali virate al canto scat. Uno dei brani decisivi del bebop è proprio di Dizzy, e si intitola Oop Bop Sh 'Bam.
Il Vocalese
Il canto scat, a sua volta, ha portato allo sviluppo del vocalese, che consiste nell'aggiungere le parole a tutte le note dei più famosi assolo strumentali, consentendo ai cantanti di raccontare lunghe storie nella lingua del jazz. Un eccellente esempio è la versione vocalizzata da Jon Hendricks di uno dei pezzi più amati della storia del jazz, Freddie Freeloader‚ dall'album di Miles Davis Kind 0/13/th Hendricks, Bobby McFerrin e Al Jarreau vi cantano nota per nota le parti originariamente eseguite da Miles, Coltrane e Julian “Cannonball” Adderley.
Versione originale di Freddie Frreloader
Versione di Jon Hendricks di Freddie Frreloader con il Vocalese
Versione di Jon Hendricks & Friends di Freddie Frreloader con il Vocalese (Bob Mc-Ferrin, Al Jarreau)
Nel frattempo, gli strumentisti sperimentavano delle modalità di rimestare e piegare le note a imitazione di una voce che parla, ride o piange: è il caso di Cootie Williams, che usava uno sturalavandini come sordina nel Concerto for
Cootie di Duke Ellington, o del trombone di Joe “Tricky Sam” Nanton in Koko; la rude tenerezza del sax tenore di Ben Webster in qualche ballad da ore tarde, o il grido ineludibile della tromba di Roy Eldridge in brani roventi come Let Me ofi Uptown, inciso con Gene Krupa e la sua orchestra. Proprio così: gli strumenti a fiato riuscivano a produrre ogni tipo di suono umano, e le loro esortazioni non erano mai disattese, né dagli altri musicisti, né dal pubblico.
Proprio perché prende spunto dalle relazioni umane di ogni giorno, il jazz adotta tecniche differenti rispetto alle precedenti forme di musica occidentale. Espedienti e trovate da circo vi hanno poco spazio; le tecniche del jazz co-
municano piuttosto emozioni con onestà e immediatezza riflettono la grandezza e l'assurdità dell'essere umani.
Il gioco call and response tra gli ottoni (trombe e tromboni) e le ance (sassofoni) è una tecnica caratteristica del-
l'orchestra jazz americana. La classica One O'Clock Jump di Count Basie è tutto un botta e risposta, così come Jum-
pin' at the Woodside, Taxi War Dance e Swinging at the. Daisy Chain. Potrei andare avanti a lungo: la conversazione tra ottoni e ance era il piatto di cui gli uomini di Basie erano più ghiotti.
Shout Chorus
Alla fine dell’arrangiamento di una big band, talvolta gli ottoni ripetono più e più Volte la stessa frase ad alto volume. Poi entrano le ance, rispondendo con la ripetizione di una frase diversa. Si tratta dello shout chorus, che con suc-
cessive ripetizioni raggiunge un'intensità quasi insopportabile. Nessuno shout chorus è più estatico di quello di Ben-
nie Moten in Blue Room.
Se non vi basta, provate la Casa Loma Orchestra con Casa Loma Stomp. Lo shout chorus è il segnale che il pezzo sta per finire. Pubblico e ballerini ne vanno matti.
Quando, dopo la Seconda guerra mondiale, le big band diventarono antieconomiche, era sempre più raro poter di-
sporre di intere sezioni di ottoni e di ance che “dialogassero” tra loro, così a solisti come Lester Young toccò fare tutto da soli. Suonavano un richiamo iniziale a cui davano la risposta nella frase successiva su un tema diverso, sugge-
rendo ancora un altro modo di organizzare le idee in un assolo jazz.
Ma nessun solista poteva suonare tutto il tempo. Così entravano altri strumenti a riempire i vuoti; e il caso della batteria di Max Roach che rispondeva alle frasi melodiche del sassofono di Charlie Parker in Segment:
O del piano di Herbie Hancock che rispondeva alla tromba di Miles Davis in My Funny Valentine:
Il contrabbassista Charles Mingus su brani come Moanin’ dava a tutti l’opportunità di dialogare, e virtualmente ogni nota suonata dal trio di Bill Evans era inserita in un “botta e risposta".
Ascoltando un grande gruppo di jazz si sente che i musicisti rispondono tra loro al richiamo delle improvvisazioni con proprietà, eleganza e grazia. Tuttavia la progressione tra il richiamo, l’ascolto e la risposta, uno dei fondamenti
della comunicazione, è un equilibrio non facile da raggiungere nella vita reale. La difficoltà sta indubbiamente
nell’atto intermedio del procedimento. “l'ascolto”. Quante volte abbiamo detto o sentito dire: “Non credo tu abbia capito quel che voglio dire", e ottenuto o pronunciato una risposta che ammette francamente: "No, non ho capito”. Anche in musica avvengono di questi infruttuosi all and response; a dirla tutta, avvengono molto spesso. A
un concetto si riesce a venirne fuori, con qualche fatica.
Il Riff
Il jazz insegna a trovare una sintonia con gli altri, a mantenerla e farla crescere. Una volta Sweets Edison, il più originale e soulful dei trombettisti di Count Basie, mi raccontò che, se una frase girava bene, le band di Kansas
City la ripetevano per trenta o quaranta minuti senza fermarsi mai ! Musicisti e ballerini scommettevano su chi riu-
scisse a trovare il groove più profondo e, una volta la, lo facesse durare più a lungo. Motivi ripetuti di questo genere sono detti riff.
Inizialmente, il riff era una qualsiasi melodia improvvisata con immaginazione. Subito dopo il suo assolo di tromba in Up a Lazy River, Louis Armstrong commenta verbalmente su com’è venuto bene: “Oh mannaggia! Ragazzi, quanto sto riffando stasera, lo spero proprio”:
Più avanti, i riff vennero a definire la ripetizione di succinti passaggi melodici. Chi ha dei figli conosce l’uso cor-
retto di un riff:
“Sali in macchina”.
“Sali in macchina."
“Sali in macchina.”
Oppure:
"Mangia la minestra”.
“Mangia la minestra.”
O ancora:
“Piantada di picchiare tua sorella”.
"Piantala di picchiare tua sorella."
l riff insiste su un concetto per ottenere un risultato, ripetendolo con un costante crescendo di intensità. Così anche in musica. I buoni riff sono compatti, coerenti, equilibrati, orecchiabili. Ti spiegano come parlare in modo conciso. Arrivano all'osso e non lo mollano.
In ultimo, i suonatori di fiati scoprirono un altro modo di utilizzare i riff: per segnalare a uno di loro che era ora di cessare l’assolo.
Questo fatto fece infuriare Charlie Parker quando era in tour con la troupe del Jazz at the Philharmonic.
La sua brillante inventiva metteva chiaramente in imbarazzo qualcuno degli altri cosicché, dopo che ebbe eseguito uno o due chorus fiammeggianti, essi presero a suonare i riff da “fine assolo" perché la smettesse. Va detto che non servì a molto, c'era sempre il prossimo pezzo.
Quando parliamo della musica, di solito citiamo il meglio. In realtà molto spesso sul palco vanno in scena le piccole, meschine gelosie che, nel jazz come nella vita, compromettono la schietta comprensione tra le persone.
Nel jazz, nondimeno, è l’emulazione che ti spinge a dare il meglio.
Emulare Charlie Parker era un’impresa: lui suonava sempre meglio degli altri.
Break
Agli albori del jazz, prima che venissero gli assolo, ogni tanto la band si fermava per una o due misure e un musi-
cista riempiva lo spazio con una frase improvvisata. Questo era detto break, un momento in cui la tensione si accu-
mula, perchè devi sostenere il flusso temporale dell’intera band tutto da solo: il nostro tempo diventa il tuo tempo, tuo e soltanto tuo. Se inciampi nel break, all’intera band viene voglia di ucciderti: tutti hanno prestato attenzione al tempo fin dall’inizio del pezzo e tu sbagli proprio il'passaggio pre il gol decisivo.
Sempre una spanna al di sopra degli altri, il giovane Louis Armstrong di fatto improvvisava l’accompagnamento armonico dei break solisti di King Oliver. Pops, come Armstrong venne poi chiamato, aveva una tale dimestichezza con lo stile del “King” che a Oliver bastava segnalare quello che stava per suonare e Louis ne inventava l’armonia all’istante. In Snake Rag si possono cogliere la maestria armonica e i riflessi fulminei di Armstrong, doti che atterrivano i musicisti di Chicago negli anni venti.
I break di solito sono di una 0 due misure, ma in A Night in Tunisia di Dizzy Gillespie ce n'è uno di quattro. Quattro misure sono lunghe per startene là appeso da solo. Anche se sei bravo, tutto quello spazio vuoto senza accompagna- mento può mettere in discussione la tua abilità a tenere il tempo, e la minima indecisione può sbalzarti completa- mente fuori dal ritmo. Andare fuori tempo con un break, anche se di poco, significa commettere un crimine contro
lo swing.
Un buon break dimostra inoltre la capacità di mantenere lo stato di grazia anche sotto pressione: è l'assoluta pa- dronanza del momento, la prova dell’importanza di pre- stare estrema attenzione a tutti i dettagli dell'interazione di gruppo. In un break si riassumono e si anticipano le intenzioni del gruppo, oppure si suggerisce una nuova dire— zione al suo slancio.
Head Chart
A volte capita di vedere un musicista che indica la sua testa a quelli del palco e improvvisamente tutti si mettono
a suonare la melodia. Sembra un segnale mistico, ma la te— sta per noi significa la melodia. Un head chart, ovvero scrittura a mente 0 "di testa”, è un arrangiamento concepito sul momento senza parti scritte, è una serie di riff improwi-
sati e armonizzati, richiami e risposte e la melodia principale. Talvolta gli arrangiamenti di testa possono essere trascritti sullo spartito e rifiniti in arrangiamenti formali; è capitato ai brani più classici di Count Basie. Se stai facendo
un assolo troppo triste, gli altri ti possono dire “Vai con la testa, man, ti prego!", come a supplicarti di smettere di farli soffrire.
E qui parliamo di una sorta di galateo del palco. Quando musicista comincia a suonare head mentre stai eseguendo un assolo, equivale a dire “Smettila”.
Se la decisione di passare a un head è prematura o dettata dall'invidia o da qualche rancore personale, tutti gli altri fanno segno di no e continuano a suonare, come a dire “Lascia stare, vai pure avanti. Allora, il solista può e deve continuare. Ma se tutti si uniformano a un head è davvero ora di terminare l'assolo.
A volte qualche maleducato prosegue ugualmente, ma in generale i musicisti accettano le regole che governano le performance dal vivo. È come una cosa che nella comunità nera chiamano dap-off.Quando è ora di terminare una conversazione, uno dà all'altro una sonora stretta di mano (dap). È il segnale che dice "Devo andare". Ma qualche volta l'altro trattiene la mano e continua a parlare, anche se c'è stato un dap-off. È un atteggiamento che non va assolutamente: la prossima volta che ti danno la mano, vai a casa e zitto.
La sezione ritmica
Spesso sentiamo dire che i jazz è l’espressione per eccellenza della libertà individuale. Dopotutto i musicisti più famosi sono solisti: Miles Davis, Louis Amstrong, Art Tatum.. In concreto, il fulcro di una jazz band èla sezione ritmica - piano, contrabbasso, batteria e, se presente, chitarra - e la libertà dei suoi componenti è comunque finalizzata a supportare i solisti. Sono come i genitori in una famiglia: lavorano mentre i figli si divertono. Ma se la sezione ritmica non funziona, non si diverte proprio nessuno.
Una volta avevo una scacchiera in cui la torre era un contrabbassista e il cavallo un batterista. Quando i miei fi-
gli più grandi avevano nove-dieci anni, mi piaceva quando esclamavano, se perdevano uno di quei pezzi: “No! Non uno della sezione ritmica!”‚ perché già a quell’età avevano capito quanto la sezione ritmica fosse essenziale.
La sezione ritmica è un’invenzione tipica del jazz: tre strumenti (a volte quattro) il cui solo compito è di far star
bene la musica.
Chi fa parte della sezione ritmica deve avere ottlml riflessi perché deve improvvisare e creare l’accompagna- mento a uno che sta inventando sul momento. E come dover anticipare quello che uno sta per dire e poi trovare la
risposta adatta mentre lo sta dicendo.
Per un suonatore di fiati trovare la sezione ritmica ideale è più importante che trovare l’amante ideale. Fai prati- camente di tutto per trattenerli, ma il più delle volte sono loro che se ne vanno. La vita media di una ritmica eccellente è di cinque anni. Le migliori avevano nomi che di- vennero leggendari, come la All American Rhythm Section
di Count Basie, composta da Papa Jo Jones, Walter Page, Freddie Green e da Basie stesso.
Ho notato certe caratteristiche fisiche e comportamentali grossi e affabili, i batteristi bassi e nervosi mentre i pianisti sono dei sapientoni, gli unici musicisti che suonano per tre ore di seguito tutto da soli e non chiedono di meglio.
Con la sua lunga e nobile storia, il pianoforte è di per sé un’orchestra completa. Suonava il piano la maggior parte
dei grandi compositori europei tra cui Beethoven (il che non fa che confermare il mio ragionamento), ed esiste un vastissimo compendio di brani composti specificamente per questo strumento.
Quando la gente chiede quale strumento dovrebbero far imparare ai figli, di solito si risponde il pianoforte. I pianisti venivano chiamati “professori” perché comprendono la meccanica della musica meglio dei comuni mortali. Noi musicisti dobbiamo sempre ricorrere a loro per farci indicare la corretta progressione di accordi, il che certamente non contribuisce a renderceli più simpatici.
I pianisti se la passano bene. Suonano negli hotel, nei ristoranti, ovunque. Si dice che il jazz sia nato nei bordelli di New Orleans, ma furono i pianisti ad avere la fortuna di trovare quel tipo di lavoro, mica i trombettisti.
Suonaano nei saloon del selvaggio West e nei locali frequentati dalla middle class, erano di casa nei palazzi e nelle sale da concerto europee. Poi, con un ribaltamento dei ruoli di classe tipicamente americano, il pianoforte, il re degli strumenti, fu restrocesso ad accompagnatore - non di una famosa cnatante o di un grande violnista ma di un qualunque suonatore di sassofono, clarinetto, cornetta o persino di trombone.
Questo rovesciamento di fortuna testimonia la disponibilità ad adeguarsi che occorre per far parte della sezione ritmica. È il medesimo adeguamento con il quale il processo democratico americano ha trattato la gente famosa e potente: a casa tua sarai anche un re, ma da noi sei solamente un "John” qualunque.
La batteria è una combinazione di strumenti: tamburi di varia misura e un vasto assortimento di piatti. I batteristi delle tradizioni musicali occidentali di solito lavorano in combutta con i trombettisti - salvo che in Scozia dove suonano con le cornamusa-. Nella sinfonia classica tedesca di Mozart, Beethovem e Haydin, i timpani suonano con le trombe. La musica afro-cubana è tutta sui tamburi e le trombe.
In una big band di jazz, se non c’è una parte scritta pe il batterista, gli si da quella della prima tromba, perché la
prima tromba suona quasi tutti gli accenti che il biatterista deve suonare per guidare la band. I batteristi sono direttori della jazz band. Controllano le dinamiche, il tempo e il senso di un brano (il Maestro, Papa Jo Jones, lo faceva
meglio di chiunque, ma anche Art Blakey ci sapeva fare. I primo lavorava di fino, il secondo era più fòcoso).
Nel jazz il batterista deve rinunciare alla supremazia d facciata per essere supremo alla base. Gli si domanda di sa-
crificare il volume alla sicurezza dell’insieme, l’intensità della botta alla salvaguardia dell'equilibrio complessivo. Un bravo batterista serve da esempio per guidare ogni tipo d gruppo, anche una famiglia. È così che si comportano i veri leader.
Parafrasando Teddy Roosevelt: “Parla piano portati una grande bacchetta".
Cavalcare e camminare
In virtù di una strana ironia. lo strumento più rumoroso del jazz - la batteria - suona ogni beat con quello più sommesso - il contrabbasso. Sono “le due mani destre": la destra del batterista "cavalca" il piatto con la bacchetta su ogni beat mentre quella del contrabbassista "cammina" le corde pizzicando una nota su ogni beat. È come la relazione che molti figli possono osservare tra i loro genitori: uno tiene la bacchetta, l’altro lo zuccherino. Con il passare degli anni, proprio come i prezzi che non hanno fatto che aumentare, i batteristi hanno suonato sempre più forte, alterando la fondamentale relazione tra la batteria e la band e spalancando le porte a ogni sorta di maleducazione e di scarso senso civico.
I bassisti a loro volta hanno cominciato a usare amplificatori elettrici per difendersi dai batteristi sempre più pesanti, stravolgendo uno dei più basilari sistemi di controllo istituzionale nel jazz. Lo strumento più leggero è diventato uno dei più rumorosi, se non il più rumoroso, e ha avuto via libera per provocare ogni genere di sconquassi. E li fa, statene certi. Questa stortura in cucina ha prodotto danni irreparabili in tutta la casa. Ecco perché batteristi come Lewis Nash sono sempre richiestissimi: suona con una finezza e un controllo tali da permettere ai contrabbassisti di farsi sentire senza alcuno sforzo.
Il contrabbasso è il partner ritmico della batteria. Ma ha anche degli obblighi in comune con il pianoforte: fornisce le note gravi al ciclo di armonie. Può inoltre svolgere funzioni melodiche, quando risponde a un solista, esegue
contromelodie o interventi solistici lui stesso.
Nel jazz forse gli si dovrebbero affidare più passaggi melodici. Una delle grandi conquiste della musica classica eu-
ropea è la libertà melodica del contrabbasso. Dalle parti notate per basso continuo, generalmente funzionali e non me-
lodiche, alle sinfonie romantiche in cui il basso interagisce con il resto dell’orchestra, si è instaurato un ricco dialogo
tra le parti acute e gravi per creare una musica melodicamente più varia.
Il Vamp
Nel jazz il contrabbasso è alle prese con un bel dilemma: dovrebbe limitarsi a ciò che chiamiamo vamp, ripetendo sempre la stessa successione di note, o dovrebbe applicarsi a uno swing sui quarti? Oppure interagire con la
melodia - o tutte e tre le cose? Quando basso e batteria si allontanano da modelli ritmici interdipendenti, il groove
della band ha meno spunti per lo swing, ma la musica diventa più complessa e discorsiva. È solo una scelta, e di aspettative.
La maggior parte dell'attuale musica pop si basa sul vamp. Basso e batteria ripetono le stesse frasi di due o quattro misure per tutta la durata del brano. È un groove contagioso e facile da ballare.
Nel jazz il basso si muove e stabilisce il groove; l'interazione del suo swing con la batteria induce i ballerini a un
rapporto dinamico tra loro e con la musica. Ma poiché gli americani non elessero l oswing a ballo nazionale, i giovani si diedero a un groove più semplice e ripetitivo, quello che serve per dimencare i culi dul dancefloor e che amiamo ancora adesso. Dall'avvento del twist, i romantici, swinganti ball di coppia come il lindy-hop sono andati fatalmente fuori moda.
La chitarra
Non abbandoniamo la sezione ritmica senza parlare della chitarra. Non si sente quasi mai in una moderna sezione ritmica (il grande compositore e pianista John Lewis mi esortava sempre a inserire la chitarra nella nostra big band,
perché aggiunge una lucidità ritmica allo swing).
Con il passar del tempo, i batteristi si sono stancati dl sacrificare il volume e i bassisti, stufi di non farsi sentire, hanno alzato i livelli dei loro amplificatori. Ebbene, come ho detto prima, la chitarra una volta era la componente più altruista della sezione ritmica. Suonava più piano del basso, lavorava su tutti e quattro i beat di una misura con basso e batteria. articolava l'armonia con il pianoforte; la chitarra non si udiva mai, era appena percepita.
Ma una volta che il rock and roll ha dato la pre- minenza alla chitarra alzandone al massimo il volume, chi diavolo aveva ancora voglia di preferire l'understatement al mito?
Con l’evoluzione del jazz, la sezione ritmica si è fatta sempre più aggressiva. La moderna sezione ritmica bal-
za dentro e fuori dal background, creando un rapporto più fluido con i solisti e spesso sfidandoli direttamente sul loro terreno. Le grandi ritmiche degli anni sessanta - quelle che suonavano con John Coltrane, Charles Mingus, Miles Davis, Ornette Coleman, Thelonious Monk, Art Blakey e il Modern Jazz Quartet, per esempio - facevano di questo fuoco di fila di call and response il modo di suonare. Ogni sezione ritmica ha uno stile e un approccio caratteristici per accompagnare i solisti e l’arte di swingare. Ormai queste due essenziali responsabilità sono minate alle fondamenta dagli assolo di basso e batteria su quasi ogni pezzo. Oggi ormai trascorrono più tempo ad aspettare il loro turno per l’assolo che a concentrarsi sul swing.
Trading
Prima che venissero di moda gli assolo di basso di cinque minuti, quando solo i migliori contrabbassisti si con-cedevano degli assolo, i batteristi avevano qualche spazio solista, qualche break. Poi, dagli anni cinquanta, l’ordine
degli assolo venne in un certo modo codificato. Generalmente era il leader, poniamo il sassofonista Charlie Parker,
a fare il primo, poi venivano a turno gli altri strumenti a fiato e il piano; poi, a Dio piacendo, i solisti alternavano i
passaggi con il batterista e non c'era un assolo di batteria vero e proprio. Questo era chiamato trading.
Fatalmente, a un certo punto il bassista prese a fare l’assolo dopo il piano. Ben presto i brani perdettero di forma e di logica, diventando meri pretesti per interminabili assolo a sazietà da parte di tutti. Non c’è da meravigliarsi che
molti tra il pubblico si stufassero.
Il fallimento di questa forma basata sugli assolo ci insegna che talvolta è meglio che non tutti dicano la loro su
ogni pezzo. A ogni modo, lo “scambio” con la batteria si chiama trading fours, oppure eights, twos o persino ones (di
solito gli scambi sono in numero pari di battute, più facili da contare e da gestire). Ciò fornisce una chance a ciascuno di farsi avanti, con inevitabili calorate, su chi lo deve fare.
Dichiarare semplicemente “fours” o “eights” sul palco significa che stai per fare un trade con il batterista. Se suo- ni uno strumento a fiato ti conviene stare all’occhio perché i batteristi si danno un sacco di arie se non ce la fai con il ritmo, anche se non hanno incombenze melodiche e armoniche come te.
La jam session
È tardi, saranno le dodici e mezzo o l'una di notte. La scena si svolge in qualche posto al mondo dove la gente
swinga fino al mattino. Il locale ha un palco. Alle pareti sono appese foto di jazzisti che hanno fatto la storia. A volte è affollato, a volte no. A volte fatiscente, a volte elegante. Tu salì sul palco, stringi le mani a tutti. Annunciano un pezzo, magari Have You Met Miss Jones?, e wow... ecco che vai! La gente comincia a sorridere e a entrare in sintonia, gridando voci di approvazione per quello che si sta suonando. Certi musicisti sono allegri, altri tristi. Il barista fa portare dei drink sul palco. Benvenuto a una jam session. Dei tipi con il sax sbucano fuori da non si sa dove. Se la sezione ritmica funziona puoi startene lì a suonare, o solamente ad ascoltare, ubriaco di swing, finché non sorge il sole.
Cutting session
Di tanto in tanto sale sul palco qualche sbruffone e ti trovi coinvolto in una battaglia, in musica. Se riesci a surclassarlo, allora si dice che gli hai "tagliato la testa". Ecco perché si parla di cutting session: qualcuno è rimasto tagliato ("cut"), si è fatto male e se ne va a casa a leccarsi le ferite. Non è che certa gente non se lo meriti. Magari hanno detto in giro che non vali niente, e ora si tratta di provarlo. Se ne arrivano, strombazzano ad alto volume, veloce e sui registri acuti. Attenti! Uno sfoggio esagerato di tecnica fa colpo sui musicisti, ma dopo lo stupore iniziale il pubblico si mette a fissare qualche punto indefinito nello spazio. Per distinguerti, devi suonare qualcosa di diverso, non solo forte, acuto e veloce. Devi restare sospeso, accennare un cantabile, sussurrarlo. Più si va veloce, più prevedibile si fa il ritmo. Se riesci a far perdere l’equilibrio all avversario con ritmiche imprevedibili ma swinganti, te ne puoi pure andare a casa soddisfatto.
Swingare
Noi tutti sentiamo sempre dire che il jazz e l’improvvisazione vanno di pari passo. È vero: l’improvvisazione è il lato più appagante del jazz per qualsiasi musicista, e l’improvvisazione collettiva quando funziona ha un effetto ca-tartico. Ma molti altri generi musicali adottano con successo l'improvvisazione. Che cos’è allora che rende unica l'improvvisazione nel jazz? La differenza più evidente è il ritmo: il jazz swinga, o almeno dovrebbe provarci.
Come altre straordinarie attività della specie umana, swingare è una questione di equilibrio, di padronanza di
sé, di sapere quando, come e quanto. È l’irresisfibile distillato della marcia e dèl valzer all’europea e del 6/8 africano
in un ritmo danzante di 4/4 di rimarchevole eleganza, pienezza e grazia (anche se non sapete che cosa sia il tempo empoafricano in 6/8 lo avete probabilmente ascoltato; è normalmente suonato su un campanaccio, sei battute per ciclo).
La nostra attuale mancanza di rispetto per lo swing può essere paragonata allo stato attuale della nostra democrazia. Si richiede equilibrio per reggere qualcosa di tanto delicato come una democrazia. Perché il potere sia efficace è imprescindibile l’accortezza di mantenerlo unito e saperlo condividere con altri. Se viene meno questa comprensione, allora è battaglia per vedere chi è il più forte, chi parla più forte, chi si fa notare di più.
I forti sono liberi di depredare i deboli.
È quello che è accaduto allo swing; i batteristi hanno cominciato a sommergere allegramente i contrabbassisti, i quali hanno risposto attacandosi agli amplificatori. I pianisti hanno iniziato a suonare brevi ritmi discontinui per dar battglia al rullante. I chitarristi ritmici hanno abbnadonato la partita e sono tornati a casa. I sassofonisti sono usciti completamente di testa e hanno ingaggiato aooslo che duravano tutta la notte, sempre sullo stesso brano. Risultato: il perfetto dis-equilibrio, libertà totale di espressione individuale senza curarsi dell'insieme. Anche se molti hanno accettato e adottato questo approccio agli antipodi dello swing, sono sicuro che un giorno i musicisti ne valuteranno i danni e in tutto il mondo si assisterà a un ritorno del jazz allo swing.
Tecnicamente, lo swing e il feeling derivato dalle triplette accentuate in tempo di quattro quarti. Probabilmente conoscete la marcetta del Club di Topolino. E un bell’esempio di swing, perché è costruita su un ritmo shuffle, a sua volta la base dello swing.
Il beat di base si conta 1, 2, 3, 4. Ora, se suddividiamo ogni beat in tre e ne accentuiamo la terza parte, diventa uno shuffle: 123,223,323,423. Quel 3 accentuato è difficile da controllare, ma dà al musicista una tremenda flessibilità ritmica.
Per comprendere il grafico qui sotto, cominciate dal beat di base e dalla melodia, espressa dalle parole. Più avanti,
notate che le sillabe accentuate si allineano con i ritmi più veloci al fondo.
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In musica, il ritmo è quasi sempre collegato alla danza, e la danza spesso costituisce la parte centrale di cerimonie e rituali evocativi di una data cultura. Lo swing - inteso come danza e come musica - denota la natura flessibile del
di base modo di vita americano. Nel jazz, il contrabbasso “cammina”, una nota per ogni beat. Il batterista “cavalca” il piatto o suona le spazzole per ogni beat. E tutti gli altri inventano suoni e melodie che oscillano con, contro o sopra ogni beat.Ogni beat richiede ai musicisti di riformulare i rapporti tra loro. E questo che rende lo swing così stimolante. obcontrabbassisti e batteristi litigano tutto il tempo. Nessuno può essere padrone assoluto dei flussi e dei riflussi.
Lo swing richiede tre cose: estrema coordinazione, perchè è una danza con altre persone che inventano continuamente nuovi passo; saper prendere decisioni intelligenti, perchè ciò che è meglio per te può non necessariamente esserlo per il gruppo, o per il dato momento; e sopratutto una disposizione positiva, perché devi essere concen- trato sull'interesse comune, tuo e degli altri, a produrre grande musica, senza farti condizionare dall’ego o da limitazioni musicali che non sono state corrette.
E non si ha molto tempo! Lo swing e un riflesso mentale immediato. Il tempo passa così in fretta che non puoi correggere il tuo istinto iniziale, devi procedere con quella che ritieni la cosa giusta. Lo swing mette alla prova le tue
risorse interiori; ti pone dubbi su te stesso ti fa arrivare più in fondo, ti fa rispondere più liberamente. Quando i musicisti swingano, stanno facendo in musica ciò che vorremmo fare quando parliamo: dire esattamente quello che sentiamo, così i nostri interlocutori lo capiscono, lo accettano e sono indotti a rivelare nella risposta quello che essi sanno e sentono.
Lo swing è anche un buon ascoltatore. Ti approva e ti sostiene e ti conduce più a fondo in ciò che vuoi dire. E il
bello è che lo fa con tutti: con chi suona, con chi balla o con chi ascolta.
Aver smarrito lo swing è la grande tragedia del ballo popolare in America. La fine dello swing è stata la fine dei balli di coppia. Non voglio dire che le coppie abbiano smesso del tutto di ballare insieme, ma lo swing era un utile veicolo per indagare la relazione fisica ocn il partner; ormai, nei club, capita solo con i lenti, ammesso che ce ne siano.
Dòbbiamo riportare lo swing in pista, non come sciocca, equivoca nostalgia, ma perché lo swing è un ritmo moderno.
È assai più adatto ai mondo integrato di oggi di qualsiasi cosa raffazzonata da una drum machine e registrata da persone che non sono neppure insieme nello stesso studio. "Inviami per e-mail la mia parte che la registro e te la mando così la puoi inserie nella registrazione. Con le meraviglie della nuova tecnologia, non ci dobbiamo neppure incontrare."
Quando una band swinga per dawero, i musicisti, il pubblico e persino - qualche volta - i critici battono il piede a tempo, fanno cenni con la testa e scodinzolano tutti in assoluta approvazione. Altri aspetti del jazz sono esclusivo domminio dei musicisti.
I discorsi tecnici non sono il pane quotidiano della letteratura jazz perché, nelle immortali parole dl Duke Ellington, "quelle chiacchiere fanno puzzare i locali". Non si può discutere di jazz, tuttavia, senza parlare almeno un poco della sua struttura.
Forma e armonia
La gente spesso mi chiede: “La inventate quella roba?". Sì, ma la inventiamo nel contesto di una struttura ripetuta. Soprattutto nella forma-canzone a trentadue misure. Naturalmente non tutti i pezzi di jazz adoperano una struttura ripetuta, ma molti sì.
Se volete percepire la struttura, cominciate a contare. Canzoni come Honeysuckle Rose, What This Thing Called Love, You Don't Know What love e Take the “A” Train hanno tutte una struttura lunga trentadue misure. Le misure si possono contare 1 2 3 4/2 2 3 4/3 2 3 4/4 2 3 4 e così via, e si suddividono in quattro sezioni di otto misure ciascuna:
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Come si vede, tre delle quattro sezioni hanno lo stesso materiale tematico. La terza è differente viene chiamata bridge.
Oh, Lady Be Good è perfetta per imparare la struttura di trentadue misure. Dopo la ripetizione delle prime otto arriviamo al bridge. Se volete le potete contare, ma una cosa è importante da notare: la melodia cambia, e così un al- tro elemento, l’armonia.
Questo ragionamento può sembrare complicato se ci pensate troppo. Ma certi trovano complicato anche ballare; invece di muoversi a tempo, cominciano a pensare a dove mettere il piede, a quale beat, e poi i fianchi, e poi la te-
sta. Nel frattempo la musica va avanti, e si ritrovano imbarazzati, spiazzati, a far da tappezzeria al muro. È molto più semplice provare a fare ciò che si può. Ci arriverete. Moltissimi ci sono aiTivati. Spiegare il ballo è molto più dif-
facile che praticarlo; l’armonia è quasi impossibile da spiegare, ma facile da sentire e da intendere.
Mi ricordo quando mio padre mi diceva che, ai primi ingaggi al piano, si accorse che le canzoni a un determina-
to punto cambiavano tonalità. Più avanti notò che il cambio riconrreva a intervalli regolari, che poi identificò con il
bridge. Una volta che ebbe collegato il bridge al resto della canzone poteva suonare la struttura A A B A sulla mag-
gior parte degli standard.
So What di Miles Davis è il brano ideale per individuare il bridge, perché ha solo due armonie: quella della sezione A (in Re minore) e il bridge (Mi bemolle minore). Il passaggio di un semitono da Re a Mi bemolle presenta un contrasto armonico facile da sentire.
Una volta Leonard Bernstein mi disse che i concetti di armonia e di progressioni armoniche sono quanto di più difficile da spiegare ai non musicisti. I jazzisti chiamano cambi una progressione di armonie, per dire cambi di accordo. Quand’ero ragazzo, mio padre e i suoi amici, quando si incontravano, si chiedevano invariabilmente: “Come sta la tua
vecchia?”. I più delle volte la risposta era: “Mi fa passare certi cambii". Voleva dire che gli rendeva la vita difficile.
Nel jazz i cambi armonici obbligano a entrare in uno iscenario musicale mutato.Ogni armonia contiene un insieme di note su cui costruire una melodia improwisata, e questo insieme costituisce una scala. Il cambio di tonalità
implica scale differenti. Per avere successo, dovete riuscire a scoprire i rapporti tra le armonie e articolare melodie
coerenti con questi rapporti, anche quando cambiano.
Quando avevo diciannove anni Wayne Shorter mi disse:
“Le note sono come le persone. Devi alzarti e salutarle una a una”.
Credevo fosse matto, ma ora capisco quel che voleva dire. Hai una relazione con le note, le scale e gli accordi,
e più la relazione è intima, più la musica che fai è ricca. Ci sono tanti modi di affrontare l’armonia quanti ce ne
sono con le persone. Inoltre, due persone si relazionano in un modo che è destinato a cambiare se se ne presenta una
terza. Aggiungerne una quarta può guastare l’atmosfera, e cosi via. Lo stesso accade con le armonie. Puoi andare alla
grande con i primi sei, ma il settimo accordo ti ammazza l’assolo. Puoi essere molto tecnico con l’armonia e cono-
scere bene le scale, oppure puoi trovare delle aspre melodie blues che fendono le barriere armoniche e suonano co-
munque bene.
È come con il tennis: puoi essere bravo sull’erba ma scarsissimo sulla terra rossa e mediocre sul cemento.
Immaginatevi altre ottanta superfici e capirete perché il sedicente movimento d’avanguardia che cominciò nei
primi anni cinquanta, e ancora si ritiene insuperabile, aveva tanta fretta di liquidare il rispetto dell’armonia, consi- derandolo fuori moda e obsoleto.
Qualche tempo fa, il tenorsassofonista Frank Foster stava tenendo un concerto all’aperto organizzato dalla Jazz Mobile a Harlem. Annunciò un blues in Si bemolle. Un giovane tenore cominciö ad andare “fuori” fin dal primo chorus, emettendo suoni che non avevano nulla a che fare con la progressione armonica o la struttura ritmica. Foster lo fermò.
"Che stai facendo?”
“Sto solo suonando quel che sento."
“Allora cerca di sentire qualcosa in Si bemolle, testa di cazzo".
Chorus
Quando improvvisano, i musicisti jazz creano nuove melodie che si adattano in una struttura metrica che si ripete
più volte. Spesso, come ho spiegato, è di trentadue misure, ma può anche essere di otto come Resolution:
da A Love Supreme di Coltrane, dodici:
come Now’s the Time di Charlie Parker:
o persino sedici come Light Blue di Monk:
A prescindere dalla quantità di misure, un ciclo è detto Chorus, e in un brano di tre minuti ce ne possono stare una decina.
L' estetica dei chorus è simile alla sistemazione e all’arredamento di un gruppo di postazioni di lavoro in un ufficio.
Ogni scomparto ha la stessa superficie, così come ogni chorus ha lo stesso numero di misure. Ognuno personalizza il
proprio spazio di lavoro secondo i propri gusti e i propri scopi; ogni chorus contiene un’idea o un colore o un aro-
ma differente, salvo, beninteso, quando il solista è a corto di idee o diventa troppo prolisso, oppure il bassista si pro-
duce in un assolo senza fine (ma anche i tenoristi qualche volta tendono a sgravarsi in quel modo).
Abbiamo passato in rassegna parecchi termini che vi aiuteranno a orientarvi nel jazz. Abbiamo lasciato fuori il
blues. Ma il blues è così centrale nel jazz che merita un capitolo a sé stante.
Fonte: Come il jazz può cambiarti la vita - Wynton Marsalis